Una fòla
Cecilia Canziani
fòla1 s. f. [lat. fabŭla: v. favola1]. – Favola, fiaba, invenzione o immaginazione fantastica: Sogno d’infermi e fola di romanzi (Petrarca); Quante immagini un tempo, e quante fole Creommi nel pensier l’aspetto vostro (Leopardi); colui che di portenti E di sogni e di fole empié le carte (Giusti, con allusione all’Ariosto). Più com. nell’uso, spec. al plur., frottola, ciancia, notizia falsa: inventare fole; è tutta una fola. (Treccani)
I titoli sono una cosa complicata. Devono restituire il senso di una mostra, ma senza esaurirlo: evocarne le opere o l’atmosfera, suggerire a chi la visita una postura, senza per questo prendere troppo spazio nell’immaginazione. Il titolo è un po’ come una cornice, e forse proprio perché le cornici non le usa, Nazzarena Poli Maramotti ha una disposizione tutta particolare con i titoli. Dà sempre l’impressione di volersene sbarazzare prima possibile. Parlo dei titoli delle mostre, ma anche i quadri hanno la stessa sorte: quello che sembra un nome provvisorio, diventa spesso definitivo. Questa mostra nasce da una vicenda di famiglia i cui contorni erano talmente incerti e il contenuto così fantastico da far dubitare della sua fondatezza, da sembrare una fola appunto, e solo l’intervento del caso e pazienti e meticolose ricerche, ne hanno rivelato invece la sostanziale verità. Dunque la fòla che è all’origine di un ciclo di quadri, diventa senza troppo pensarci anche il titolo della mostra, secondo capitolo di una trilogia del ritorno iniziata nel 2021 con il ciclo di lavori confluiti nella mostra Pratonera dedicatiai luoghi del paese della pianura padana emiliana dove l’artista ha scelto di stabilirsi nuovamente dopo gli anni di studio e lavoro all’estero. Per inciso: se il nome Pratonera vi suggerisce qualcosa di epico, sappiate che è una frazione abbastanza moderna di Cavriago, provincia di Reggio Emilia, dove l’artista vive. Pratonera era una sorta di epopea della pianura – del suo paesaggio, dei personaggi che la popolano, delle sue feste, dei suoi riti – una versione pittorica di quella forma di autopoiesi che è tipica di questa parte d’Italia, da Reggio a Parma, da Parma a Reggio a Modena a Carpi, a Carpi al Tuwat (al Tuwat, al Tuwat) passando per Gianni Celati, Paolo Nori, Ermanno Cavazzoni, e poi Luigi Ghirri, Guido Guidi, e potremmo continuare a lungo. Insomma, Pratonera era una sorta di anamnesi dei luoghi, a cui segue ora un ciclo di opere che affrontano i temi più intimi di una saga familiare.
Rileggendo le lettere di Nazzarena mentre mi preparavo a scrivere questo testo mi sono trovata a seguire il racconto – che pure conoscevo – come fosse un romanzo gotico. C’è infatti un castello, abitato da un bizzarro nobiluomo genovese che in origine faceva parte dei possedimenti della famiglia di Matilde di Canossa. C’è l’usanza del Conte di adottare alcuni dei figli dei suoi mezzadri (quando scompare esattamente questo antico sistema sociale, e per fare spazio a cosa). C’è una scimmietta che viene acquistata cedendo al capriccio di uno di questi figli adottivi e che viene lasciata libera di scorrazzare per tutto il castello, al punto tale che lei – la scimmia – si percepisce come una bambina e si ingelosisce delle altre bambine che hanno accesso al castello. E allora una notte morde il viso di una neonata, e questa volta, per mettere fine alle sue ritorsioni, la scimmia viene uccisa e seppellita nella tomba che accoglie i cani del conte.
Luoghi, protagonisti e vicende raccontate sembrano collocare la storia nell’Ottocento, ma siamo invece tra il 1920 e il 1940 e la bimba morsa dalla scimmia è la nonna materna dell’artista. Così una storiella un po’ incredibile, alla quale tutto sommato in famiglia nessuno prestava fede, una volta indagata a fondo si rivela non essere poi una fola (e mi sembra suggerire anche qualcosa che va oltre la contingenza, cioè che l’arte, che sembra avere poco a che fare con la realtà e molto con l’invenzione, è sempre, una ricerca di verità).
Non so se sia davvero importante conoscere esattamente i contorni della vicenda, forse basterebbe dire che al centro della mostra c’è la tomba di una scimmia che si rivela vuota, una figura maschile e una costellazione familiare femminile, e che le opere sono un modo per restituire evidenza al racconto e celebrare, più che elaborare, un trauma. E forse è utile sapere che a Nazzarena interessano moltissimo i monumenti, ma soprattutto quelli abbandonati, o collocati in posti isolati o incongrui, quelli assurdi e anche quelli brutti. Purché (ma dovrei dire: perché) abbiamo un potenziale narrativo.
Una fòla mette in tensione la Storia con la memoria personale e si costruisce a partire da una serie di immagini declinate in altrettante opere. Negli spazi della galleria si alternano una serie di dipinti a olio su tela e su tavola: ritratti che nei colori e ancora di più nelle pose sembrano emergere da un passato non così lontano ma già sfuggente (un Ottocento che riaffiora nella pittura italiana come un rimosso), piccoli paesaggi dall’orizzonte basso, gelati, lividi, invernali. Grandi tele che reinventano i paesaggi con natura morta di cacciagione tipici della pittura fiamminga seicentesca o le scene di caccia. Le nature morte di fiori, un soggetto ricorrente nel vocabolario di Poli Maramotti, ma che in questa occasione hanno il tono esangue dell’offerta ai defunti. Urne collocate su consolle in legno. Poggiati su due basse mensole, frammenti in ceramica di foglie che evocano il corredo iconografico della scultura funeraria.
Elementi fitomorfi e zoomorfi si innestano anche sui dipinti, sembrano suggerire un soggetto che è percepibile solo attraverso la sua assenza: l’animale della favola che si lascia solo intuire. Ancora, nei quadri e nelle ceramiche torna spesso un tratteggio grafico che a volte si sovrappone alla superficie e a volte la incorpora come elemento costruttivo rimandando in maniera più o meno evidente a una presenza animale. La metamorfosi che è alla base di tante favole, si traduce in questa mostra nella migrazione di segni, posture e atmosfere da un’opera all’altra e da un medium all’altro.
Proprio a partire dal titolo, Una fòla ci invita a leggere le opere come elementi di un racconto che la galleria spazializza: i ritratti di Bacigalupo, La Mercede e La Giovanna, sono distribuiti nelle tre sale, come se ciascuno introducesse un capitolo della storia.
Nella prima sala una natura morta con vaso di fiori, tratteggiato con pennellate lunghe e molto asciutte (un quadro che evoca, deliberatamente il tardo De Pisis, perché nei suoi lavori Poli Maramotti gioca sempre con la storia della pittura), dialoga e quasi duplica la consolle con vaso di ceramica posta sotto di esso. Suggerisce una dimensione domestica, che si va gradualmente raffreddando nella terza sala nelle due sculture fitomorfe di ceramica su legno che hanno il titolo di Mausoleo, e rappresentano a tutti gli effetti un cenotafio a cui fa da contrappunto Urna una scultura in ceramica realizzata in monocottura che rinuncia a ogni decorazione che rende le altre, presenti in mostra, più simili a vasi.
Come i ritratti e le nature morte, anche i dipinti di paesaggio si distribuiscono in tutti gli ambienti: se nelle prime due stanze suggeriscono una luce e una temperatura (e sarà perché ho riletto in questi giorni Jane Eyre, ma mi sembra che nella mostra questi dipinti funzionino in maniera simile alle pagine che raccontano i luoghi in cui si svolge il romanzo: ritratti morali e immagini narrative più che semplici descrizioni della brughiera), diventano soggetto autonomo nella seconda e prendono tutto lo spazio nella terza.
Nei quadri più grandi accadono molte cose, e alcune cose nuove. Il paesaggio si struttura come movimento attraverso una dialettica di velature e cancellature, oppure si costruisce attraverso l’accumulo di masse di colore. Su questa superficie un segno organizza il piano fino a far affiorare la figura come potenzialità, oppure diventa disegno, sovrapponendo allo sfondo grafemi che a volte accennano corpi di cani, zampe e code di scimmia, nuvole e poi tornano ad essere vibrazioni della superficie pittorica. Altrove piccoli tocchi di colore puro sulla superficie del dipinto ne riassumono la palette (pars pro-toto). Sono paesaggi con figure, luoghi che restituiscono una storia.
Tornando a Pratonera, se quel gruppo di opere cercava di restituire una trama affettiva di luoghi, di persone, di gesti, questo secondo capitolo è uno scavo nel tempo e nella memoria: la propria, certamente, ma anche quella di un Paese. Nazzarena Poli Maramotti sta costruendo un’autobiografia di gruppo in cui vicende e ricordi (e anche i desideri e i rimpianti e le amnesie e gli stupori) tradotti in immagine – i ritratti, i paesaggi e le still lives – contribuiscono alla scrittura di un romanzo di storia, un History Painting di cui ora bisogna attendere il prossimo capitolo.